L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato il primo rapporto sull’antibiotico-resistenza, che descrive la resistenza di alcuni gruppi di patogeni alle classi di antibiotici più comuni. A parlarcene Annalisa Pantosti, dirigente dell’ISS e uno dei coordinatori della Sorveglianza nazionale sull’antibiotico-resistenza.
Qual è lo scopo del rapporto e che cosa è emerso?
Da oltre vent’anni l’ISS coordina la sorveglianza dell’antibiotico-resistenza; in questi anni abbiamo seguito come alcuni gruppi di batteri patogeni, causa di infezioni gravi, fossero più o meno sensibili agli antibiotici principali che servono per le terapie.
L’antibiotico resistenza non è una malattia, ma una caratteristica di batteri che all’inizio erano sensibili a farmaci come gli antibiotici e col tempo sono diventati resistenti perché c’è stato un uso eccessivo di questi stessi farmaci.
Negli ultimi vent’anni abbiamo raccolto i dati prodotti da alcuni laboratori di microbiologia ospedalieri, li abbiamo messi insieme, analizzati e tracciato un quadro della situazione italiana; il quadro derivante non è stato molto felice, soprattutto per quelle specie batteriche che portano infezioni all’interno degli ospedali (la gran parte delle infezioni che seguiamo sono di pazienti negli ospedali).
La situazione dell’Italia per questi batteri durante gli anni di sorveglianza in genere è andata peggiorando, cioè la resistenza agli antibiotici è aumentata sempre di più. Quest’anno per la prima volta abbiamo avuto segnali positivi, vale a dire alcune resistenze in alcune specie hanno dato dei segni di diminuzione. È un segnale piccolo ma incoraggiante, vuol dire che le iniziative messe in atto hanno cominciato a dare i primi frutti.
Lei ha parlato di pericoli soprattutto negli ambienti ospedalieri, ma esiste un pericolo derivante da quelli fuori dall’ospedale, perché magari vengono somministrati antibiotici con un po’ troppa leggerezza. Esiste un problema di questo tipo?
Se guardiamo all’uso di antibiotici, la maggior parte viene utilizzata nell’ambito territoriale e quindi è ovvio che gli antibiotici possano favorire che i batteri diventino resistenti anche in comunità. Il problema degli ospedali è che c’è proprio una concentrazione sia di utilizzo di antibiotici che di persone deboli con altre patologie, sottoposte ad interventi chirurgici, che portano cateteri o altre situazioni che possono favorire l’ingresso di batteri nell’organismo. È in queste situazioni che l’antibiotico-resistenza è veramente un evento drammatico, perché poi richiede l’utilizzo di antibiotici più costosi, complicati da usare o più tossici.
Fuori uno dei problemi è che vengono utilizzati troppi antibiotici, spesso perché non si fa molto ricorso a pratiche di diagnosi microbiologica, per cui nella maggior parte dei casi essi vengono prescritti senza che si sappia chiaramente quale sia la causa di una sospetta infezione; se questo potesse essere migliorato in futuro, anche perché saranno presto sul mercato dei test per fare diagnosi rapide, a quel punto il medico potrebbe avere un validissimo aiuto per fare la scelta migliore, cioè se prescrivere l’antibiotico e quale.
Quali sono le altre soluzioni alle porte per migliorare la situazione dentro e fuori dalle strutture ospedaliere?
Oggi si parla di antimicrobial stewardship; stewardship vuol dire guida all’uso degli antibiotici che ogni ospedale, ogni strutture sanitaria dovrebbe fare, così come dovrebbe essere fatto anche in comunità.
L’altro importante pezzo per la prevenzione è che sia limitata la diffusione delle infezioni all’interno degli ospedali, mettendo in atto quello che si chiama infection control, cioè tutte quelle procedure, quelle buone pratiche che impediscono che gli infetti o i portatori sani di microrganismi resistenti li trasmettano ad altri pazienti. Ciò si basa su una serie di procedure, prima tra tutte una molto semplice ed economica, ma poco praticata, corretta igiene delle mani tramite lavaggio e disinfezione con gel idroalcolico da parte del personale sanitario ogniqualvolta viene toccato un paziente – sarebbe buona regola far seguire la profilassi anche ai visitatori, in modo che essi non riportino a casa o portino da casa i microrganismi al proprio caro ricoverato o che non rischino di infettare il vicino di letto, magari nel tentativo di aiutarlo ad alzarsi, anche se fatto con le migliori intenzioni.
Francesco Vaccaro